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I gioielli da capo nelle raffigurazioni quattrocentesche della Vergine Maria
DOI: 10.7431/RIV03032011
La testa è un elemento chiave nella storia del costume occidentale. In Europa è soprattutto a partire dal Medioevo che sono comparsi in capo alle donne accessori e gioielli fastosi, spesso volti a ostentare lusso e opulenza1. Dal XV secolo inoltre sono apparse in Italia contemporaneamente molte fogge di pettinature, e questo ha reso il capo uno dei veicoli privilegiati delle mode del periodo2. Dietro a questi ornamenti era presente una moltitudine di significati; non è infatti un caso che tante attenzioni fossero dedicate proprio alla testa. Essa era riconosciuta come la parte del corpo maggiormente degna di riguardo, in quanto sede delle facoltà intellettuali3. Nella cultura occidentale una particolare considerazione verso il capo è da sempre presente, tant’è vero che proprio sulla testa sono posti i simboli distintivi del potere spirituale e temporale quali la mitria vescovile e la corona regale4. Inoltre, secondo la gerarchia del pensiero medievale e rinascimentale era considerato maggiormente lecito decorare ciò che la natura stessa ha posto più in alto. I piedi e le gambe erano infatti considerati inferiori gerarchicamente5. Tramite accessori e gioielli, il capo diveniva emblema del proprio rango, del gusto e della sensibilità alle mode. Questo specialmente per quanto riguarda le donne, esposte quasi come dei manichini viventi per esibire lo status della famiglia di appartenenza. Le dame del XV secolo erano ben consce di questo ruolo sociale, e facevano della loro testa un vero e proprio campo di rappresentazione: grazie a un sistema di ornamenti, i cui materiali, colori e forme erano codificati nella normativa suntuaria, il capo femminile era in grado di comunicare una miriade di significati, legati soprattutto alla condizione sociale e personale, a manifestare privilegio e agio economico, ma anche sudditanza, lutto o marginalità6.
Una descrizione veritiera degli ornamenti da capo femminili del Quattrocento ci è fornita dall’Agostiniano Gottschalk Hollen: «primo, una donna vanitosa pone un cappuccio da uomo sopra il velo; secondo, un prezioso velo piegato; terzo, una triplice o quadruplice rete di seta; quarto, spille per capelli in oro e argento; quinto, un monile alla fronte (o al petto); sesto, capelli lucenti di una donna morta comprati»7. Nell’ambito dello studio dei beni suntuari e delle arti applicate nell’Italia Centrosettentrionale del Quattrocento, si è posta l’esigenza di dare una rappresentazione visiva a tali accessori, in particolare per quanto riguarda i gioielli. Eseguendo un’analisi sulle raffigurazioni pittoriche della Vergine Maria in quest’area, si è così scoperto un utilissimo strumento iconografico. Nel corso dell’indagine è emerso subito un dato significativo: nei primi cinquant’anni del Quattrocento i gioielli da capo sono presenti nella loro fastosità quasi esclusivamente nella pittura profana. La Vergine Maria compare quasi sempre velata pesantemente, priva di preziosi o con i capelli lasciati sciolti. Questo accade anche nelle rappresentazioni di autori solitamente molto sensibili alle mode, come ad esempio Pisanello. Ma con la diffusione degli ideali rinascimentali si è radicato nella mentalità degli artisti un nuovo interesse verso il mondo fisico8: attorno alla metà del secolo i pittori hanno iniziato a fornire con il proprio lavoro una rappresentazione più fedele possibile del mondo in tutti i suoi aspetti. È dunque ragionevole supporre che in questo tentativo di riprodurre la realtà in ogni suo particolare non fosse fatta eccezione per i gioielli da capo9. Infatti, come fece notare Bernard Berenson, il Rinascimento portò gli artisti a costruire la tridimensionalità in un’arte bidimensionale come la pittura, oltre che a rappresentare i costumi umani usando l’occhio della scienza e dell’esperienza come ispirazione10. Lo scopo dei pittori rinascimentali era quindi quello di far apparire reale la loro arte ai contemporanei. Per fare ciò dipingevano ogni dettaglio con grande accuratezza per renderne esattamente le dimensioni, la forma e la consistenza tattile11. È quindi evidente quanto questo cambiamento nell’arte possa aiutare lo studio dei beni suntuari, ancor più perché ha investito anche l’arte sacra: sono nate così le più fastose rappresentazioni della Vergine. Infatti, come scritto da Frederick Antal: «in questo periodo di estremo razionalismo nell’arte non possiamo parlare di spirito irreligioso, ma solo di un’interpretazione relativamente secolarizzata dei contenuti religiosi. Lo sviluppo delle scienze profane, della matematica, come la prospettiva lineare, è ora applicato all’arte, compresa l’arte religiosa. Lo studio delle antichità inoltre ha incoraggiato l’esatta resa della natura nell’arte»12. L’avvento del mondo fisico nella pittura sacra non ha quindi portato a uno svilimento dei contenuti religiosi presenti in essa, ma piuttosto a un avvicinamento di questi alla vita degli uomini del tempo.
È però necessario premettere che le informazioni ricavabili dalle opere pittoriche non sono generalizzabili, poiché la quantità di elementi tratti dalla realtà è una variabile per ogni dipinto, e non può essere data per scontata. Per verificare dunque in che misura gli artisti si siano ispirati a manufatti reali, è stato effettuato un confronto con opere profane coeve, ma soprattutto con fonti scritte quali ricordanze private, leggi suntuarie e inventari di beni mobili.
Prima di passare a considerare in dettaglio i gioielli da capo, è doveroso ricordare la varietà delle pettinature e degli accessori a cui i preziosi erano abbinati nel Quattrocento. Per far questo ci vengono in aiuto i sermoni dei predicatori quali ad esempio Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, che, nel tentativo di imporre alle donne degli ornamenti modesti e appropriati al censo di ognuna, descrivevano l’infinita varietà di pettinature in voga nel XV secolo. Bernardino da Siena si scagliava così contro le bizzarre forme delle acconciature quattrocentesche: «le donne han più capi del diavolo, e chi lo ha a trippa, chi a frittella, chi a grappoli, chi l’avviluppa in su, chi lo ha in giù; chi ha il capo a civetta, chi a balla, chi a merli e torri»13. Nonostante questo, gli artisti hanno dipinto in capo alla Vergine proprio le pettinature tanto avversate dai religiosi. È necessario però specificare che secondo la Chiesa il peccato derivava da un uso scorretto degli ornamenti, quale l’appropriazione di elementi del costume di altre categorie sociali14. Secondo questo principio sembra quindi ragionevole che alla Vergine non fosse vietato nulla, con l’esclusione degli accessori interdetti a ogni ceto. Erano ad esempio considerati riprovevoli i capelli morti, ovvero posticci ricavati dalla capigliatura di persone decedute15; questi erano amatissimi dalle donne perché utilizzabili per aumentare la massa dei capelli e creare acconciature molto elaborate16. Essi tuttavia appaiono anche in rappresentazioni della Vergine, a testimonianza di quanto il reale fosse radicato nell’ispirazione degli artisti rinascimentali. Sono infatti intuibili in alcuni dipinti per il volume e la quantità di capelli molto consistente (Fig. 1).
Accessorio irrinunciabile per le donne sposate era il velo, diventato obbligatorio dal XIII secolo grazie a un constituto del cardinale Latino Malebranca17; l’ecclesiastico si ispirava alla Prima lettera ai Corinzi di San Paolo: «ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo [...] la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza»18. Nel XV secolo l’obbligo di coprire i capelli era esteso anche fuori dai luoghi di culto per prevenire ogni possibile causa di tentazione per l’uomo. Ma spesso il velo, più che per coprire, era utilizzato dalle donne come accessorio elegante, per “vestire” i capelli in modo ricercato e alla moda. Ciò avveniva soprattutto grazie alla diffusione, crescente nel corso del secolo, del tessuto serico del filugello19 che, essendo trasparente, lasciava vedere le chiome variamente acconciate, come si nota anche in alcune raffigurazioni di Maria (Figg. 1 – 5). C’erano svariati modi di indossare i veli, i quali erano fabbricati in forme e materiali diversi. Molto in voga era quello triangolare, solitamente portato con un vertice appoggiato alla fronte20 (Figg. 1 – 2). Sotto ad esso spesse volte erano indossati dei posticci, i mazzocchi, sorta di imbottiture usate per rialzare la pettinatura (Figg. 3 – 4). Si tratta di una moda contemporanea a quella delle pianelle, scarpe con un’altissima zeppa che sembrano avere scopo analogo: slanciare la figura e regalare un incedere maestoso21. Una moda trecentesca ancora molto diffusa nel XV secolo è quella delle bende e dei benducci, strisce di tessuto generalmente bianche che venivano intrecciate ai capelli. Questi accessori sono visibili in molti dipinti di Piero della Francesca, amate dall’artista probabilmente per la loro semplice linearità, che ben si presta alla semplificazione matematica che Piero ricercava in ogni sua opera attraverso i reali costumi degli uomini, i quali tramite la sua arte assumono l’aspetto delle leggi immutabili (Fig. 5). Nelle sue raffigurazioni i personaggi indossano i capi realmente di moda all’epoca, e ciò è confermato dalla cura dei dettagli22. A volte in modo analogo ai benducci erano usati anche nastri, e le acconciature potevano essere completate con reticelle seriche o in filo d’oro (Fig. 6).
Passando a trattare specificamente dei gioielli da capo, molte informazioni ci sono fornite dagli inventari di beni mobili, i quali erano redatti in svariate occasioni: per stilare l’eredità, per catalogare i beni contenuti nella dote, per registrare gli oggetti ricevuti o dati in pegno a garanzia di un prestito. Tali fonti possono essere giudicate altamente attendibili, considerata l’esigenza pratica che avevano di registrare oggetti realmente posseduti. Così anche la normativa suntuaria che, avendo la necessità di stabilire ornamenti leciti e di vietare quelli illeciti, li descriveva con grande cura, in particolare per quanto riguarda i materiali preziosi utilizzati. Essendo il capo la sede favorita degli ornamenti, spesso si trovano nelle leggi divieti specifici riguardanti questa parte del corpo. Anche alcune memorie ci possono essere d’aiuto poichè c’era l’usanza di annotare i gioielli e i beni preziosi regalati dai fidanzati alle future spose23. Nel Quattrocento infatti il matrimonio era un momento centrale della vita familiare, al quale erano dedicate moltissime attenzioni; era proprio in occasione delle nozze che le donne ricevevano la maggior parte dei propri gioielli da capo, sia sottoforma di doni, sia contenuti nella dote24. Non stupisce dunque che la maggioranza dei preziosi visibili nella ritrattistica, e quelli di cui si fa menzione nelle fonti scritte, richiamino significati ricollegabili alle nozze. Sono infatti ricorrenti, sia nei ritratti redatti in occasione dei matrimoni, sia nelle raffigurazioni di Maria, perle, oro e pietre di colore rosso. A questi materiali erano riconosciute proprietà apotropaiche e propiziatorie, codificate in trattati specifici25. Tali trattati erano così diffusi all’epoca da raggiungere anche l’ambiente popolare e quello ecclesiastico, motivo per il quale anche gli attributi dei Santi e della Vergine erano sovente sottolineati tramite il significato dei gioielli26.
Le perle, riscontrabili nella quasi totalità degli statuti suntuari27 e degli inventari, erano tanto amate perché emblema di castità e purezza. Nel vangelo di Matteo la perla è paragonata al Regno dei Cieli28; Ugo di San Vittore29 la pone a diretto confronto con la Vergine, rendendola identificabile con l’assenza di peccato dell’Immacolata Concezione; Rabano Mauro30 la definisce specchio di castità. Con questo significato le perle divennero l’ornamento nuziale quattrocentesco per eccellenza, spesso portate in dono dai fidanzati alle promesse spose. Cino Rinuccini nel 1461, tra il 10 aprile e il 5 giugno, ne comprò in diverse occasioni per farne dono alla fidanzata. Così anche Bernardo Rinieri che, al momento di acquistare dei gioielli per la futura moglie, scelse un frenello di perle e un fermaglio che conteneva anch’esso perle31.
Non di rado assieme alle perle si riscontrano nei gioielli da capo anche pietre rosse, sia lasciate a cabochon, sia tagliate semplicemente in tolla32. Queste potrebbero essere rubini, visto il significato attribuito a questa pietra che «fa accrescimento a ogni prosperità, accheta la lussuria, induce sanità al corpo» come scrive Dolce, rifacendosi a autori medievali e quattrocenteschi33. Si potrebbe trattare altrimenti di balasci, spinelli nobili molto utilizzati a causa del valore più contenuto, riscontrabili in moltissimi inventari34. Nell’inventario dei beni mobili dei Principi Estensi del 1437, ad esempio, sono presenti alcuni gioielli con balasci:
- Uno zoglielo d’oro cum uno balasso ad octo cantoni in mezo cum quattro perle
- Uno zoglielo d’oro cum uno balasso in mezo tondo, avallado, cum cinque perle intorno et sopra uno diamantino in costa
- Uno zoglielo d’oro cum uno balasso a quattro cantoni in tolla in mezo cum cinque perle grosse d’intorno et de sopra uno diamante a puncta35
Il castone per perle, rubini e balasci era generalmente realizzato in oro, metallo prediletto per i gioielli da capo, come dimostrano le leggi, ricorrenti in tutta Italia, che vietavano di portare in testa accessori interamente in oro36. Esso è definito da Rabano Mauro simbolo della sapienza divina e era considerato parte integrante di tutto il gioiello, capace di accrescere il potere delle singole gemme37.
Gioielli con oro, pietre rosse e perle erano dunque molto presenti tra i beni delle famiglie del XV secolo. Ritenuti in grado di conservare puro chi li indossava38, erano portati dalle donne come amuleti per garantire una serena vita coniugale. Il significato simbolico di queste gioie ben si presta a sottolineare nei quadri le virtù della Vergine, in particolare purezza e castità39. Come conferma il confronto con le fonti scritte, non solo i materiali preziosi erano copiati nella pittura sacra, ma anche i gioielli interi, portatori essi stessi di significato. In particolare la Vergine è sovente rappresentata con due degli accessori da testa più in voga in questo periodo: il frenello e il fermaglietto. È proprio su questi si focalizza il presente lavoro, seppur siano rintracciabili, nelle raffigurazioni di Maria, anche gioielli da capo di tipo diverso40.
Il frenello è un ornamento da testa diffuso in tutta Italia composto da uno o più fili di perle. Il suo nome deriva presumibilmente dal suo uso pratico nel trattenere i capelli, ed è di origine toscana41. Esso poteva essere portato in vari modi: intrecciato attorno alle torsioni del velo, ai capelli veri o posticci, lasciato ricadere semplicemente sul capo, oppure indossato attorno alla circonferenza della testa42. Le perle erano infilate come in una collana, oppure montate su una struttura metallica, quale poteva essere ad esempio un gallone d’oro43.
Si trova un pezeto de un fernelo nella dote della padovana Uliana44. In Friuli Venezia Giulia sono presenti negli inventari un «opus sive laborerium de argento a frinello vocatum flos (1405) un frinello de perlis (1411) 1 crinale seu girlanda vel frinuellum de margaritis cum aviculis et floribus de argento» (1450)45. Nell’inventario del 1456 dei beni personali di Piero de Medici, appare un frenello di duecentoventiquattro perle46. Sempre a Firenze Bernardo Rinieri, in occasione di una visita alla sua futura sposa, le recò in dono un frenello composto da centouno perle47.
Carlo Crivelli è un pittore che ha rappresentato spesso la Vergine con questo gioiello in testa. Solitamente ha dipinto file di grosse perle, al centro delle quali è posta una pietra cabochon, generalmente rossa (Fig. 4). Tale accessorio è quasi una costante nei dipinti del pittore, che lo includeva già nelle opere giovanili. Ad esempio nella Madonna col Bambino del Museo di Castelvecchio spunta dal ricco velo un frenello di perle, di cui si scorge la montatura metallica, probabilmente in oro (Fig. 7). Un gioiello simile a quelli rappresentati da Crivelli è quello appoggiato sul capo della Madonna in trono di Bernardino Butinone (Fig. 8). Esso è composto da due file di perle a destra e una fila a sinistra, le quali si congiungono al centro in una grande perla appoggiata alla fronte. La dimensione della gioia centrale è considerevole, e sicuramente non era facile all’epoca reperire perle così grandi. Come è riportato nella Pratica di mercatura quattrocentesca, le perle sopra i dodici carati erano talmente rare e costose da essere difficili da vendere48. Tuttavia le famiglie più ricche potevano permettersi il lusso di possedere perle di dimensioni ben maggiori, come la «perla grossa di carati 35» presente nell’inventario della famiglia Medici del 149549.
Una tipologia di gioiello ancor più frequente in tutta Italia era il fermaglietto. Si tratta di una sorta di spilla che nel XV secolo si usava appuntare sullo scollo della veste, sulla spalla sinistra, sui veli o direttamente tra i capelli50. A Padova il fermaglio era proibito dalle leggi suntuarie, fatta esclusione per quello da testa, che veniva concesso a patto che non superasse il valore prescritto: nel 1459 era concesso sul capo per un valore massimo di 30 ducati, mentre nello statuto del 12 maggio 1460 è specificato: «Nec possit aliqua mulier de praedictis portare […] aliquod fermagietum a spalla nec aliquas perlas alicuius valoris’ exceptis perlis quae ponuntur in fermagieto quod deferri possit super capite». Il 19 marzo 1488 invece l’atto del consiglio cittadino padovano recita che è lecito «portar una giema, cioè formajeto incavo sora al fronte hover altrove de prexio de ducati quaranta e non più»51.
Proprio a Padova lo Schiavone ha rappresentato la Vergine con un piccolo, semplicissimo fermaglio appuntato al velo (Fig. 9). Il gioiello consiste in un’unica pietra rossa tagliata a cabochon, un rubino probabilmente, montato in oro. Rimanendo nella città, le carte d’archivio come inventari, doti, testamenti e ricevute di prestito ci testimoniano la diffusione del fermaglietto, oltre a darci informazioni sulla forma e sui materiali usati. Nella maggior parte dei casi il gioiello reca al centro una balascio cabochon o tagliato in tavola, circondato da perle. Eccone alcuni esempi:
- nel 1457 Salomone Melis vendeva a Carlo del fu Gabriele de Transversiis un fermaglio «a dreza de auro cum uno balasio et quatuor perlis».
- Nell’inventario di Paolo d’Arezzo è presente «uno fermaieto a drecia cum quatuor perlis pulcris et 1 balaxio».
- Tra i beni di Girolamo della Torre, nell’inventario del 1493, compare «unum formagetum aureum cum quattuor perlis et uno balasio»52.
Anche in area lombarda si può ritrovare il cosiddetto fermaglio da zuffo, ovvero da ciuffo, fatto per essere appuntato direttamente ai capelli53. L’uso di questo ornamento è testimoniato anche dalla legge milanese del 1498, che impedisce i firmalios, consentendo il loro uso solo alle classi privilegiate della città54.
A Firenze è possibile rintracciare una cospicua presenza di fermaglietti nei documenti d’archivio. Come reso noto da una ricordanza privata, Bernardo Rinieri regalò in due diverse occasioni dei fermagli alla fidanzata, di cui uno con diamanti e l’altro con rubini e perle55. Nell’inventario di Piero de Medici sono incluse otto brocchette, ovvero fermagli in toscano, definite da petto o da testa. Nell’elenco delle gioie portate da Clarice, sposa di Lorenzo de Medici, a Roma nel 1472 quando compì un viaggio per salutare la famiglia, era presente «Jo fermaglio con Jo balasco cottolo forato in Ja rosa». E ancora, nel 1481, nell’inventario di beni di Lorenzo il Magnifico in mano di Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, compaiono:
- Un fermaglio da testa con un Rubino […] et sei perle datorno
- Un fermaglio da testa con un balascio noce tre perle et un falchone
- Un fermaglio da testa con un balascio in mezzo tre perle et tre rubini
- Un fermaglio tondo da testa con un grosso balascio ciottolo senza foglia, due grosse perle et una tavola di Diamante
- Un fermaglio con un balascio et due perle56.
In un’opera del Maestro della Natività di Castello si può ammirare un fermaglietto molto simile a quelli presenti negli inventari citati, composto da una pietra rossa centrale circondata da perle e con montatura in oro (Fig. 10). La pietra centrale sembra essere a cabochon, mentre le perle e il metallo sono disposti in modo da formare un fiore. Anche Biagio d’Antonio ha dipinto in capo a Maria un gioiello simile, con una pietra rossa al centro tagliata in tavola, quattro perle attorno ad essa, e la montatura d’oro (Fig. 11).
Filippo Lippi invece, nella Madonna col Bambino a palazzo Medici Riccardi, ha posto sul velo della Vergine un’altra tipologia di fermaglietto molto diffusa: il fermaglio con l’angelo (Fig. 12). Sono infatti visibili le ali d’oro, una grossa perla bianca che funge da corpo, e un piccolo rubino cabochon come testa. Gioielli raffiguranti angeli sono attestati in tutta Europa nei documenti scritti, a partire dalla metà del XIV secolo fino alla fine del XV. Iconograficamente questi gioielli derivano da opere orafe ellenistiche rappresentanti Amori e Vittorie alate. Questi erano indossati in occasione delle nozze, motivo che ne giustifica l’ampia circolazione. La ritrattistica fiorentina ci dimostra la diffusione di tali gioielli in Toscana, i quali probabilmente non erano prodotti in loco, ma importati dalla Lombardia (Figg. 13 – 14 – 15). È infatti noto che la stessa famiglia Medici acquistava gioie a Milano, uno dei più rinomati centri di produzione orafa d’Italia57. Inoltre Lippi potrebbe aver visto dei fermagli con l’angelo anche durante il suo soggiorno padovano. Qui, nell’inventario redatto dopo la morte di Francesco, figlio del docente universitario Antonio Roselli, si trova infatti un gioiello di questa tipologia58. Sempre a Padova, in un documento del 12 febbraio 1488, Paolo da Bertipaglia del fu Giacomo affittava a Agostino delle Valli del fu Conte un moronianum d’oro con tre balasci e tre perle «cum uno spiritello de auro»59.
Come testimoniano alcuni ritratti, era cosa comune nel Rinascimento indossare sul capo il frenello in abbinamento al fermaglietto (Fig. 16). Allo stesso modo nei dipinti sacri la Vergine può essere raffigurata con entrambi i gioielli. In questo caso si tratta in genere di frenelli di semplice fattura in combinazione con fermagli molto elaborati, che troneggiano sulla sommità del capo quasi come un’ideale corona. È così ad esempio in un quadro, attribuito a Antonio del Pollaiolo, in cui la Vergine porta un frenello di perle, tra le quali si intravede la montatura in oro (Fig. 17). Sopra a questo si vede un fermaglio di forma floreale, appuntato direttamente tra i capelli, con i petali d’oro distesi e una pietra rossa centrale. Tale tipologia di fermaglio ritorna in altri dipinti fiorentini, come ad esempio nel Ritratto di Simonetta Vespucci di Botticelli (Fig. 16). Considerato che Antonio del Pollaiolo era, oltre che pittore, orafo, così come il fratello di Botticelli, diventa comprensibile l’attenzione riservata da questi due pittori ai gioielli. Seppur il ritratto botticelliano non possa essere ritenuto realistico (Simonetta incarnava il mito della donna ninfa ed era perciò spesso ritratta con vesti e atteggiamenti idealizzati60 ), è altresì vero che fermagli simili a quello della Vespucci sono rintracciabili in posizione analoga in un ritratto attribuibile a Pietro del Pollaiolo e su una testa muliebre di Luca della Robbia (Figg. 18 – 19).
A Ferrara invece, le arti cosiddette “minori” (in primis l’oreficeria) rivestivano per la corte Estense un ruolo di primissimo piano, poiché generavano oggetti preziosi che i principi potevano agevolmente maneggiare e ostentare a testimonianza della propria potenza. Proprio per questo i pittori attivi a Ferrara hanno sviluppato le loro opere in un ambiente abituato alla commistione con le arti minori. Già Pisanello forniva disegni per la realizzazione di gioielli per gli Estensi, e così sarà per gli artisti di corte successivi. Questo influenzò certamente la pittura dei ferraresi, ricca di elementi richiamanti le oreficerie, ma anche le iconografie, ispirate a quello che vedevano in realtà. Infatti la corte riluceva di gioie preziosissime, che ritroviamo nella pittura sacra61. Ercole de’ Roberti dipinge infatti la Vergine con dei gioielli molto simili a quelli visibili nelle pitture profane. Come negli affreschi di Palazzo Schifanoia, la Madonna indossa un sottilissimo filo nero che le attraversa la fronte (Figg. 20 – 21). Questo accessorio richiama molto l’aspetto della lenza, ovvero un sottile cordoncino di stoffa nera che veniva legato dietro alla testa, e che poteva reggere sulla fronte un piccolo gioiello62. Nell’opera di de’ Roberti, Maria porta anche un fermaglio composto da una grossa perla e tre pietre tagliate in tavola: probabilmente un rubino, un diamante e una pietra molto scura, di difficile identificazione. Inoltre la Vergine indossa quello che potrebbe sembrare un frenello, con perle alternate a pietre preziose rosse e nerastre. Non è chiaro però dove e come tali gioie sono montate, poiché a esse fa da sfondo una banda dello stesso colore dei capelli, che fa quasi pensare che siano appuntate sulla chioma stessa. Altra ipotesi è che questo accessorio da capo sia intrecciato ai capelli, come effettivamente veniva a volte utilizzato, in modo da lasciare in vista solo le pietre e le perle.
È invece ben visibile la grande e rigida montatura in oro del frenello indossato dalla Vergine nella celebre Annunciazione con Sant’Emidio di Carlo Crivelli (Fig. 22). L’accessorio è usato per trattenere i capelli all’indietro, e ciò potrebbe giustificare dal punto di vista funzionale la struttura metallica, certamente influenzata dal gusto di Crivelli per le gioie di dimensioni importanti. Infatti al centro del gioiello è posto un grande fermaglio, analogo a quelli analizzati in precedenza: con la montatura rotonda in oro, un rubino cabochon al centro e quattro perle intorno ad esso. Simile ma di dimensioni più ridotte è il fermaglietto che Maria porta in capo nel dipinto di Zenale alla Pinacoteca Malaspina (Fig. 23). Sempre rotondo, in oro e con al centro una pietra rossa, qui tagliata in tavola, presenta delle piccole differenze dai fermaglietti considerati precedentemente. La gioia centrale pare infatti essere circondata da quattro pietrine più piccole dello stesso colore, ma lasciate irregolari a cabochon. Il fatto che le pietre sostituiscano le perle nel fermaglietto, non comporta tuttavia l’assenza di queste ultime dal quadro. Esse sono infatti presenti nel frenello, apparentemente composto da un nastro di tessuto nero, sopra al quale sono cucite o infilate.
Sebbene alcuni interrogativi rimangano irrisolti, è evidente l’utilità delle rappresentazioni della Vergine nell’illustrarci i gioielli quattrocenteschi e il significato che ricoprivano nel costume dell’epoca. Un dato confermato è la centralità del matrimonio nella vita del XV secolo, la quale ha portato alla rappresentazione della Vergine con gioielli tipici delle spose quattrocentesche. La Madonna era assunta a esempio di sposa perfetta: castità e purezza sono infatti le caratteristiche a cui tutte le spose rinascimentali dovevano aspirare. Da un lato dunque i dipinti sacri desumono i significati dei gioielli dalla realtà per sottolineare le caratteristiche tipiche dell’Immacolata, dall’altro la Vergine tramite questi rimandi è d’ispirazione per le spose, le quali indossano i gioielli come amuleti in grado di aiutarle ad avere una vita coniugale felice e virtuosa.
Si può dunque affermare che nel Settentrione d’Italia gli artisti del secondo Quattrocento, scegliendo di rappresentare Maria con gli accessori da testa realmente in voga, ci hanno dato la possibilità di ammirare dei vividi ritratti della moda quattrocentesca, in tutto lo splendore dei gioielli da capo della Vergine.
- L. KYBALOVÀ, O. HERBENOVÀ, M. LAMAROVA, Enciclopedia illustrata della moda, a cura di G. Malossi, Milano 2002, (ed originale: Obrazova encyklopedie mody, Praga 1973), p. 389. [↩]
- R. LEVI PISETZKY, Storia del costume in Italia, in Enciclopedia della Moda, 3 voll., Milano 2005, p. 365. [↩]
- G. BUTAZZI, L’acconciatura femminile nella seconda metà del secolo XVI nei figurini del Vecellio, in Il vestito e la sua immagine. Atti del convegno in omaggio a Cesare Vecellio nel quartocentenario della morte, (Belluno 20-22 settembre 2001), a cura di J. Guerin Delle Mese, Belluno 2002, p. 41. [↩]
- L. KYBALOVÀ, O. HERBENOVÀ, M. LAMAROVA, Enciclopedia illustrata…, 2002, p. 403. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino 1996, p. 180. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Ma cosa avevano in testa? Copricapi femminili proibiti e consentiti fra Medioevo e Età moderna, in Un bazar di storie. A Giuseppe Olmi per il sessantesimo Genetliaco, a cura di C. Pancino, R. G. Mazzolini, Trento 2006, p. 14. [↩]
- L. KYBALOVÀ, O. HERBENOVÀ, M. LAMAROVA, Enciclopedia illustrata…, 2002, p. 389. [↩]
- E. BIRBARI, Dress in italian painting 1460-1500, Londra 1975, p. 12. [↩]
- Ibidem, p. 4. [↩]
- B. BERENSON, Italian painters of the Reinassance, Londra 1952, p. 9, in E. Birbari, Dress in italian painting …, 1975, p. 4. [↩]
- E. BIRBARI, Dress in italian painting…, 1975, pp. 12-13. [↩]
- F. ANTAL, Florentine painting and its social background, Londra 1948, p. 289, in E. Birbari, Dress in italian painting…, 1975, pp. 12-13, la traduzione è dell’autrice. [↩]
- L. KYBALOVÀ, O. HERBENOVÀ, M. LAMAROVA, Enciclopedia illustrata…, 2002, p. 132. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Gli inganni…, 1996, p. 178. [↩]
- Ibidem. [↩]
- R. LEVI PISETZKY, Storia del costume…, 2005, I, p. 346. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Gli inganni…, 1996, p. 157. [↩]
- PAOLO, 1 Cor 11; 3, 5, 10. [↩]
- F. CAPPI BENTIVEGNA, Abbigliamento e costume nella pittura italiana, Roma 1964, p. 160. [↩]
- E. BIRBARI, Dress in italian painting…, 1975, pp. 80-84. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Gli inganni…, 1996, p. 90. [↩]
- M.G. CIARDI DUPRÈ, Con gli occhi di Piero, in Con gli occhi di Piero, Abiti e gioielli nelle opere di Piero della Francesca, catalogo della mostra (Arezzo, basilica inferiore di San Francesco 11 luglio- 31 ottobre 1992), a cura di M.G. Ciardi Duprè, G. Chesne, D. Griffo, Venezia 1992, p. 4. [↩]
- B. WITTHORF, Marriage Rituals and Marriage Chests in Quattrocento Florence, in “Artibus et Historiae”, vol. III, n. 5 , 1982, p. 44. [↩]
- B. WITTHORF, Marriage Rituals…, in “Artibus et Historiae”, vol. III, n. 5, 1982, p. 51. [↩]
- C. A. PATITUCCI, La fortuna del gioiello magico e terapeutico in Italia, in Gioielli in Italia. Sacro e profano dall’antichità ai giorni nostri, atti del convegno di studio (Valenza, Centro comunale di cultura 7-8 ottobre 2000), a cura di L. Lenti, D. Liscia Bemporad, Venezia 2001, pp. 27-28. [↩]
- Ibidem. [↩]
- E. VERGA, Le leggi suntuarie milanesi: gli statuti del 1396 e del 1498, in “Archivio storico lombardo. Giornale della società storica lombarda”, 24 (1898), fasc. 16, p. 9. [↩]
- Ancora, il regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di belle perle. E, trovata una perla di grande valore, va, vende tutto ciò che ha, e la compera. (Matteo 13; 45-46). [↩]
- UGO DI SAN VITTORE (attribuzione incerta), De bestiis et aliis rebus, XII secolo, in C. Patitucci, La fortuna…, 2001, p. 36. [↩]
- R. MAURO, De gemmis, in R. MAURO, De universo libri XXII, IX secolo, in C. PATITUCCI, La fortuna…, 2001, p. 36. [↩]
- B. WITTHORF, Marriage Rituals…, in “Artibus et Historiae”, vol. III, vol. III, n. 5, 1982, p. 55. [↩]
- Nel Quattrocento le pietre erano levigate, lucidate e incastonate nella loro forma naturale, senza essere tagliate. Lasciate così a cabochon manifestavano il gusto medievale dell’oreficeria per le pietre grandi e non necessariamente regolari, che permarrà anche durante il Rinascimento. Contemporaneamente però, grazie alla riscoperta dei trattati antichi sulla geometria, attorno all’ultimo quarto del Quattrocento le pietre iniziano ad essere tagliate in tavola. Questo procedimento consiste nel dividere a metà un cristallo ottenendo due piramidi. Asportando il vertice superiore di ogni piramide e levigando si ottengono due parallelepipedi dalla superficie liscia e piana, che ricorda appunto una tavola. La differenza tra il taglio in tavola e a cabochon è, come si vedrà, spesso visibile nei dipinti. Per maggiori informazioni si rimanda a G. Baldissin Molli, Fioravante, Nicolò e altri artigiani del lusso nell’età di Mantegna: ricerche di archivio a Padova, Padova 2006, pp. 64-65 e D. Liscia Bemporad, Il gioiello al tempo di Piero, in Con gli occhi di Piero…, 1992, p. 83. [↩]
- L. DOLCE, Libri tre, nei quali si tratta delle diverse sorti delle gemme che produce la natura, della qualità, grandezza, bellezza e virtù loro, Venezia 1565, III voll., vol. II, in particolare cap. II, “Come e donde siano virtù nelle pietre”, in C. PATITUCCI, La fortuna…, 2001, p. 36. Il fatto che nei dipinti siano effettivamente rappresentati rubini e non, ad esempio, granati è un’ipotesi dell’autrice basata sulla proprietà simboliche collegabili alle nozze che i rubini avevano. [↩]
- Esempi di inventari in cui appaiono gioielli con balasci saranno riportati nella trattazione del fermaglietto da testa. [↩]
- I gusti collezionistici di Leonello d’Este: gioielli e smalti en ronde bosse a corte, catalogo della mostra a cura di F. Trevisani, Modena 2003, pp. 229-233. [↩]
- M.G. MUZZARELLI, Ma cosa avevano in testa…, 2006, p. 14. [↩]
- D. LISCIA BEMPORAD, Funzione e significato delle gemme e delle montature dal Medioevo al Rinascimento, in Cristalli e gemme. Realtà fisica e immaginario. Simbologia, tecniche e arte, atti del convegno di studio (Venezia, 28-30 aprile 1999), a cura di B. Zanettin, Venezia 2003, p. 325. [↩]
- C. PATITUCCI, La fortuna…, 2001, pp. 36-37. [↩]
- C. PATITUCCI, La fortuna…, 2001, p. 28. [↩]
- La corona, che tanto spesso si vede sul capo della Vergine già in dipinti di epoche precedenti, per differenze di simbologia e diverse circostanze che hanno spinto gli artisti a rappresentarla merita un discorso a parte. Qui si è preferito tralasciarne la trattazione, poichè nel corso dei secoli non sempre si è ispirata a gioielli realmente esistiti, essendo già nata come attributo iconografico di Maria, anche se in rappresentazioni del secondo Quattrocento ci sono delle probabili copie dal vero. Non sono stati qui analizzati alcuni dipinti in cui sono presenti altri gioielli di tipo eterogeneo, per la scarsità di materiale di riscontro nelle fonti scritte. [↩]
- R. LEVI PISETZKY, Storia del costume…, 2005, I, p. 369. [↩]
- V. DI ANTONIO DELLALUNA, Glossary of Renaissance Dress and Textile Terms, https://www.florentine-persona.com/glossary.html, agg. 2009. [↩]
- R. LEVI PISETZKY, Storia del costume…, 2005, I, p. 369. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, Fioravante, Nicolò e altri…, 2006, p. 103. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, Fioravante, Nicolò e altri…, 2006, p. 119. [↩]
- M. SFRAMELI, I gioielli dei Medici: dal vero e in ritratto, Livorno 2003, p. 11. [↩]
- B. WITTHORF, Marriage Rituals…, in “Artibus et Historiae”, vol. III, n. 5, 1982, p. 55. [↩]
- M. SFRAMELI, I gioielli dei Medici…, 2003, p. 17. [↩]
- M. SFRAMELI, I gioielli dei Medici…, 2003, p. 180. [↩]
- V. DI ANTONIO DELLALUNA, Jewelry in the Italian Renaissance, https://www.florentinepersona.com/jewelrybox.html, agg. 2009. [↩]
- A. BONARDI, Il lusso d’altri tempi in Padova. Studio storico con documenti inediti, Venezia 1909, pp. 145-152. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, Fioravante, Nicolò e altri…, 2006, p. 119. [↩]
- P. VENTURELLI, I gioielli e l’abito tra Medioevo e Liberty, in Storia d’Italia, a cura di C. M. Belfanti e F. Giusberti, Torino 2003, p. 87. [↩]
- E. VERGA, Le leggi suntuarie milanesi: gli statuti del 1396 e del 1498, in “Archivio storico lombardo: Giornale della società storica lombarda”, 24, 1898, p. 49. [↩]
- B. WITTHORF, Marriage Rituals…, in “Artibus et Historiae”, vol. III, n. 5, 1982, p. 55. [↩]
- M. SFRAMELI, I gioielli dei Medici: dal vero e in ritratto, Livorno 2003, pp. 178-179. [↩]
- P. VENTURELLI, Smalto, oro e preziosi: oreficeria e arti suntuarie nel Ducato di Milano tra Visconti e Sforza, Venezia 2003, pp. 73-75. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, I beni di lusso nei ritratti del Quattrocento, Cittadella 2010, p. 69. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, Fioravante, Nicolò e altri…, 2006, p. 115. [↩]
- G. BALDISSIN MOLLI, I beni di lusso…, 2010, p. 97. [↩]
- R. PICELLO, Il Rinascimento alla corte di Ferrara, in https://guide.supereva.it/storia_arte/rinascimento, 2004. [↩]
- G. CHESNE – D. GRIFFO, Gli abiti, in Con gli occhi di Piero…,1992, p. 54. [↩]